Testo criticoMona Saudi

Tra le poche scultrici della sua generazione a ritagliarsi un posto nel mondo arabo, l’artista giordana Mona Saudi (Amman, 1945 – Beirut, 2022) ha reinterpretato con orgoglio il proprio patrimonio regionale. Al centro della sua opera c’è un’incessante ricerca sui meccanismi interni della Terra e gli aspetti segreti della vita e del corpo umano. Saudi ha realizzato personalmente tutte le sue sculture, a volte lavorando ininterrottamente per diciotto ore. Basandosi sul concetto islamico di takween (tutto ciò che è decretato divinamente e che accadrà al momento opportuno), inizia i suoi lavori con semplici forme geometriche, affidandosi ai principi del movimento e della composizione, finché non riesce a trarre calore dalla fredda pietra. Ispirandosi al desiderio di Brancusi di scolpire “non l’apparenza, ma l’idea, l’essenza delle cose”, ha intitolato la sua prima scultura in pietra Mother/Earth (1965). Saudi ha concepito la propria pratica come un processo spirituale attraverso il quale raggiungere l’ascensione, e le sue forme scultoree si basano su disegni spesso ispirati all’arte mesopotamica, alle sculture dell’antico Egitto e alla Grecia classica. Scrittrice e amante della poesia, considerava la scultura “un’incarnazione della poesia, che dice ciò che non è detto e tocca ciò che non è toccato”. Diplomatasi a Parigi nel periodo delle rivolte studentesche del 1968, ne ha subito fortemente l’impatto che l’ha poi portata a lavorare con i bambini sfollati nel campo palestinese di Baqa’a nella sua nativa Giordania. Dopo aver aderito al dipartimento d’arte del Fronte per la Liberazione della Palestina, ha realizzato numerosi poster per sostenerne la causa. Saudi ha vissuto e lavorato per cinquant’anni a Beirut, dove ha continuato a scolpire fino agli ultimi giorni della sua vita.